Approfondimento
La relazione del Prefetto di Caserta Carlo Schilardi
Dall'unità d'Italia alla Repubblica delle Regioni
Un secolo e mezzo fa, il neonato Regno d'Italia fu costruito su basi centralistiche per
consolidarne l'unitarietà.
Nel 1946, dopo i disastrosi esiti del secondo conflitto mondiale e un ventennio di
dittatura, i cittadini elettori inviarono alla Costituente come partito di maggioranza relativa,
con il 35.2% dei voti, una forza politica (la Dc) che traeva i suoi ascendenti da un partito
regionalista come il Partito popolare di don Luigi Sturzo, il quale aveva ben chiara nel suo
programma l'opzione autonomista.
Con basi culturali profondamente diverse, questa era anche la posizione di una parte
dei costituenti liberali e socialisti, ma soprattutto di azionisti e repubblicani: entrambi
consideravano l'accentramento uno dei peccati originali dello Stato italiano. Per gli azionisti,
poi, fautori del governo presidenziale, un forte tessuto autonomistico costituiva una necessità.
Queste concezioni pluraliste vennero a trovarsi in antitesi con quelle di gran parte
della sinistra ostile, invece, all'autonomismo e al regionalismo per il timore che potessero
favorire i particolarismi e rendere il rinnovamento economico e sociale, che essi più di ogni altro
obiettivo perseguivano, più difficile. Divisi furono a lungo i socialisti.
Un primo confronto fra le proposte dei diversi partiti si ebbe in seno alla Commissione
Forti (che si era vista affidare dal Ministro per la Costituente il compito di condurre "studi
attinenti alla riorganizzazione dello Stato"). In quella sede le cautele furono molte: a lieve
maggioranza comunque ci si espresse a favore dell'istituzione delle regioni, viste però come meri
enti di decentramento amministrativo e soggette a controlli statali (non si pensava di attribuire
ad esse potestà legislativa).
In Assemblea le regioni riuscirono a passare con il consenso del Pci, escluso dal
governo nella primavera 1947, che cominciava a tenere in più alta considerazione i vantaggi della
distribuzione del potere politico, ma prevalse in ogni caso quella che la dottrina considera una
"posizione intermedia" (AMATO-BRUNO): le regioni non avrebbero avuto ambiti legislativi propri ed
esclusivi, ma solo concorrenti, cioè vincolati a quanto avrebbero disposto le leggi statali.
Queste, in teoria, avrebbero dovuto contenere solo norme quadro, ma in realtà, come si è visto poi
negli anni dal 1970 in poi, il Parlamento ha finito col battezzare quali principi fondamentali
disposizioni di assoluto dettaglio.La soluzione adottata alla Costituente fu dunque caratterizzata
per questi elementi:
- istituzione di regioni con competenze differenziate: quelle a statuto speciale con materie
di competenza esclusiva, quelle a statuto ordinario con materia di competenza ripartita e
concorrente (con quella statale), già definite nell'art. 117 della Costituzione;
- individuazione, appunto nell'art.117 Cost., delle materie di competenza regionale,
intendendosi i poteri residui tutti statali (sintomo evidente di abbandono di ogni ipotesi
federalista);
- previsione di ulteriori limiti alla competenza legislativa, pur concorrente, delle regioni
(interesse nazionale, delle altre regioni, leggi di grande riforma);
- nessuna autonomia fiscale;
- autonomia statutaria vincolata da disposizioni costituzionali comuni a tutte le regioni in
ordine alla forma di governo;
- disciplina statale diretta degli enti territoriali all'interno delle regioni (comuni e
province);
- struttura del Parlamento tale da consentire la sola rappresentanza dei partiti politici e
nessuna rappresentanza degli enti territoriali sub-nazionali;
- limitato concorso delle regioni alla revisione costituzionale (sola possibilità di
richiedere il referendum nel caso di approvazione della legge di revisione con maggioranza
assoluta, ma inferiore ai due terzi dei componenti);
- nessuna partecipazione regionale alla formazione dell'organo deputato a dirimere i
conflitti di attribuzione fra regioni e fra stato e regioni (la Corte costituzionale composta di
giudici di nomina parlamentare, presidenziale e giudiziaria);
- devoluzione agli organi statali della possibilità di istituire nuove regioni o fonderne di
esistenti, con procedimento "rinforzato" perfino rispetto a quello costituzionale;
- sottoposizione della legislazione regionale a controllo governativo preventivo; il ricorso
alla Corte da parte del governo impedisce l'entrata in vigore della legge regionale (il ricorso
della regione contro una legge dello stato è invece successivo);
- sottoposizione a controllo di legittimità degli atti amministrativi delle regioni.
A ciò si deve poi aggiungere, in ultimo, il modo e i tempi in base a cui le regioni
sono state effettivamente istituite. Ciò infatti è accaduto a ben 22 anni di distanza dall'entrata
in vigore della Costituzione, nel 1970 per ragioni storico-politiche che qui non si ripetono. Il
ritardo era grave in sé e per sé: ma soprattutto perché, nel ventennio 1948-1968, tutta la pubblica
amministrazione centrale e locale si era strutturata in assenza delle regioni; gli stessi enti
territoriali minori avevano confermato o acquisito un ruolo che certo sarebbe stato ben diverso se
avessero dovuto coordinarsi con l'ente regione sin dal 1948.
D'altra parte anche la Corte costituzionale nel complesso di una giurisprudenza non
sempre coerente ha concorso con le sue decisioni a far prevalere, per lo più, istanze
centralistiche: le quali, possono apparire giustificate in un paese non solo caratterizzato da
differenze economiche rilevanti (esse anzi giustificherebbero regimi altrettanto differenziati e
forti autonomie), ma soprattutto da livelli di sviluppo sociale e civile tali da far temere le
conseguenze dell'autogoverno e della fiscalità profusa in certe aree del paese.
Nella distribuzione territoriale del potere politico la scelta tra due soluzioni
estreme - quella a prevalenza autonomistica con quote di "sovranità territoriale", espressa
dagli stati federali, e quella a prevalenza centralistica, espressa dagli stati unitari ed
accentrati - cadde, perciò, su una posizione intermedia, di uno stato regionale, di uno stato,
cioè, che vede costituzionalmente garantita la presenza di enti regionali dotati di autonomia.
Lo stato regionale si ha, in genere con un movimento dall'alto verso il basso, quando
l'ente centrale "ripartisce" la sua sovranità sul territorio creando veri e propri enti
territoriali autonomi (le regioni), che sono sì a sovranità derivata (e non originaria) ma ne hanno
abbastanza per autoregolarsi e autogovernarsi, hanno cioè proprie funzioni legislative.
Per capire la natura dello stato regionale italiano, come disegnato dalla Costituzione
del 1948, bisogna fare riferimento all'art. 5 che dichiara: "La Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; [...]".
"Riconosce", cioè accoglie di per sé, al suo interno, ordinamenti territoriali minori,
e "promuove", cioè si impegna a dare concreta possibilità a questi enti di autogovernarsi.
Si è già detto che fu tardiva l'attuazione delle regioni a statuto ordinario. Anche se con L.
10/II/1953 n. 62 (c.d. legge Scelba) si stabilì la composizione e il funzionamento degli organi
regionali, solo con L. 17/II/1968 n. 108 si stabilì il sistema elettorale per i consigli regionali
(peraltro modificato con L. 23/II/1995 n. 43) e con L. 16/V/1970 n. 281 si stabilì il sistema di
finanziamento delle regioni.
Le prime elezioni regionali si tennero nel Giugno del 1970, e nel 1971 il Parlamento
approvò gli statuti regionali. Solo nel 1972 con i DPR 14/I/1972 numeri da 1 a 11, si ebbe il primo
trasferimento di funzioni alle regioni. Un secondo e più significativo trasferimento si ebbe con
DPR 24/VII/1977 n. 616, emanato in base alla legge-delega L. 22/VII/1975 n. 382 sull'ordinamento
regionale e sull'organizzazione della Pubblica Amministrazione.
Nuovi e massicci trasferimenti di funzioni si avranno con L. 8/VI/1990 n. 142 e L.
15/III/1997 n. 59 che riguardano però anche, e soprattutto, l'autonomia degli altri enti locali
(province e comuni) e il decentramento amministrativo.
Il Commissario di Governo
L'art. 124 Cost., ora abrogato, disciplinava la figura del Commissario di Governo, che
si poneva quale organo di collegamento tra lo Stato e la regione, necessario per coordinare le
azioni ed impedire invasioni di competenza.
Dopo una prima fase in cui veniva dato risalto anche alla vigilanza sulle funzioni delegate alle regioni, il Commissario assurse sempre più a figura di coordinatore, cioè di sovrintendente alle attività amministrative proprie dello Stato per coordinarle con quelle proprie della regione. L'effettiva volontà del costituente fu dunque quella di istituire una rappresentanza statale a livello regionale: esso venne collocato alle dipendenze del Governo centrale, ma senza avere potere diretti nei confronti della Regione.
Ulteriori elementi di specificazione della figura del Commissario erano
forniti dal legislatore ordinario :
- la legge 62/1953 prevedeva che il Commissario presiedesse l'organo di controllo sugli
atti dell'amministrazione regionale, disposizione poi abrogata dal D.L.vo n.40/1993, che manteneva
comunque al Commissario la presidenza della Commissione Statale di controllo istituita in ciascun
capoluogo regionale. Al Commissario era affidato il potere di richiedere la convocazione del
Consiglio regionale entro 10 giorni dal ricevimento dell'invito del Presidente del Consiglio dei
Ministri alla sostituzione della Giunta regionale o del Presidente, qualora compiessero atti
contrari alla costituzione o gravi violazioni di legge;
- il D.P.R. n.616/1977 disponeva che egli fungesse da tramite per l'esercizio del potere
di sostituzione da parte del Governo in caso di persistente inattività degli organi regionali
nell'esercizio delle funzioni delegate qualora le attività medesime dovevano svolgersi entro
termini perentori previsti dalla legge o risultanti dalla natura degli interventi;
- la legge 108/1968 conferiva al Commissario il potere di indire le elezioni regionali,
di disporre la determinazione dei seggi del consiglio regionale e la ripartizione tra le
circoscrizioni. Era inoltre legittimato a promuovere l'azione giudiziaria per la verifica della
composizione del consiglio regionale e della eleggibilità dei suoi componenti;
- con d.l.vo n.300/1999 veniva stabilito che il prefetto preposto all'U.T.G. nel
capoluogo regionale svolgeva anche le funzioni di Commissario del Governo.
Il Commissario di Governo assumeva quindi la funzione di controllore di un soggetto politico e, in quanto tale, non in posizione di indipendenza o di equiparazione con il livello di governo centrale.
Materie di competenza delle Regioni prima della riforma
Prima della riforma erano
quelle elencate nell'art. 117 Cost. ed erano raggruppabili, in base a quanto disposto dal DPR
24/VII/1977 n. 616, in quattro settori: "servizi sociali; sviluppo economico; assetto e
utilizzazione del territorio; ordinamento e organizzazione amministrativa".
Merita un chiarimento il fatto che le regioni potevano emanare leggi nelle materie indicate
dall'art. 117 Cost. "nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato". Le
regioni, cioè, non erano assolutamente libere nella legislazione di competenza, ma dovevano
attenersi al "quadro" normativo generale che sulle rispettive materie era disegnato dalle leggi
statali. Su ciascuna materia indicata dall'art. 117, lo stato emanava leggi (dette "leggi cornice"
o "leggi quadro") in cui si fissavano i princìpi fondamentali invalicabili, validi per tutto il
territorio nazionale; poi le regioni "riempivano la cornice", "dipingevano la tela dentro il
quadro", emanavano cioè, nella forma di legge regionale (L.R.), disposizioni più dettagliate, in
base anche alle esigenze locali.
E così, a partire dalla L. 22/VII/1975 n. 382, lo stato cominciò a emanare tutta una serie di
leggi-quadro, fra le quali ricordiamo: la L. 335/1976 sulla contabilità regionale; la L. 386/1976
sugli enti agricoli di sviluppo; la L. 10/1977 sull'edificabilità dei suoli e sull'urbanistica; la
L. 968/1977 (sostituita dalla L. 157/1992) sulla caccia; la L. 984/1977 (sostituita dalla L.
752/1986) sugli interventi pubblici in agricoltura; la L. 457/1978 (modificata dalla L. 179/1992)
sull'edilizia residenziale pubblica; la L. 833/1978 (modificata da DLgs 502/1992, sostituito da
DLgs 517/1993) sul servizio sanitario nazionale; la L. 845/1978 sulla formazione professionale; la
L. 151/1981 sui trasporti pubblici locali; la L. 93/1983 (sostituita da DLgs 29/1993) sul pubblico
impiego; la L. 217/1983 sul turismo; la L. 443/1985 sull'artigianato; la L. 65/1986 sulla polizia
locale; la L. 394/1991 sulle aree protette; etc. Quanto sopradetto rientrava nella così detta
"competenza concorrente" delle regioni. Le regioni a statuto ordinario, cioè, "concorrevano" con la
legislazione statale (nei limiti da essa imposti con le leggi-quadro) a legiferare sulle materie di
loro competenza dettate dall'art. 117 Cost.
Ma sulle stesse materie, e su altre indicate dai rispettivi statuti, le regioni a statuto
speciale (quelle insulari e mistilingue) hanno talora una "competenza esclusiva", che "esclude",
cioè, che lo stato possa emanare leggi con efficacia nel territorio di quelle cinque regioni. Nelle
materie su cui le regioni speciali hanno competenza esclusiva, nella loro legislazione, dovranno
rispettare tutti gli altri limiti già visti (cfr. art. 120 Cost.) ma non quello dei "princìpi
fondamentali stabiliti dalle leggi dello stato" (cfr. art. 117, primo comma).
La riscoperta del federalismo nella seconda metà degli anni Ottanta e il tema delle riforme
istituzionali.
La riscoperta delle istanze di decentramento territoriale da parte del potere politico è
molto recente. Non che nel corso degli anni non si fossero registrate fasi in cui da parte dei
governi regionali si era assunto un atteggiamento rivendicativo nei confronti dello Stato: in
particolare nel decennio Settanta fino all'adozione del Dpr 616/77 con il quale lo Stato trasferì
alle Regioni le funzioni amministrative che ad esse spettavano in parallelo alle funzioni
legislative. Successivamente si è però fatto strada una sorta di regionalismo cooperativo e
concertato di cui massima espressione può considerarsi la "Conferenza permanente per i rapporti fra
lo Stato, le Regioni e le Province autonome", istituita in via informale negli anni Ottanta e poi
disciplinata dalla legge 400/88, volta a superare il vuoto di rappresentanza centrale regionale
lasciato dal costituente, recentemente riformata dalla legge 59/97 la quale ha istituito un
ulteriore organo di coordinamento costituito dall'integrazione della Conferenza Stato-Regioni con i
comuni e le province (autonomie locali), atteso il forte ruolo tradizionale dei comuni.
Che la classe politica nazionale non percepisse in alcun modo l'esigenza di una
redistribuzione territoriale di potere politico a vantaggio delle regioni (quale invece una società
evolutasi avrebbe richiesto con sempre maggiore energia), è testimoniato dalle vicende della prima
Commissione bicamerale per le riforme istituzionale, istituita nel 1983 e guidata dal deputato
liberale Aldo Bozzi (membro a suo tempo della Commissione dei 75 alla Costituente).
Tra il 1997 ed il 1998, come già accennato, le leggi c.d. Bassanini, anticipando la riforma
di tipo federale, hanno introdotto il principio di "sussidiarietà" e notevolmente ridotto i
controlli sugli atti degli enti locali, limitandoli a taluni atti fondamentali quali gli statuti, i
regolamenti di competenza del consiglio, i bilanci e relative variazioni. In quegli anni erano
ancora aperti i lavori della "Bicamerale". Il legislatore, sull'ala dell'entusiasmo di una
possibile riforma costituzionale ritenuta molto vicina, ha anticipato i tempi (creando non pochi
scompensi nell'assetto complessivo dell'ordinamento giuridico) delle modifiche costituzionali,
introducendo con la legislazione ordinaria modifiche ordinamentali estremamente rilevanti.
Uno dei sistemi pensati dal legislatore per consentire l'evoluzione della disciplina voluta,
è consistito nell'eliminazione dei controlli esterni, da sostituire col potenziamento di quelli
interni.
Ma la legge 127/1997, e di conseguenza il D.lgs 267/2000, non poteva del tutto sopprimere i
controlli, dal momento che l'articolo 130 della Costituzione era ancora vigente.
Verso il federalismo: la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 recante "modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione"
Un punto fermo è ormai rappresentato dalla entrata in vigore della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3, recante "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", la cui
applicazione comporterà effetti significativi e profonde innovazioni nell'ordinamento giuridico.
Per cogliere in tutta la loro portata gli effetti che le modifiche del titolo V della seconda
parte della Costituzione potranno avere sull'ordinamento giuridico, e in particolare, su settori
fondamentali della legislazione statale, come il settore degli appalti, il settore del commercio,
l'ordinamento strutturale e funzionale della pubblica amministrazione, l'ordinamento degli enti
locali, e su altri settori fondamentali dell'ordinamento, occorre considerare non tanto l'ambito di
esercizio della potestà legislativa delle Regioni, e cioè, le materie su cui le stesse possono
legiferare alla luce del nuovo testo dell'art. 117 Cost., quanto i limiti - sicuramente minori
rispetto a prima - che la stessa potestà legislativa regionale incontra nel nuovo sistema
legislativo delineato dalla legge di riforma n. 3/2001, nonché il rapporto fra la legislazione
regionale e la legislazione statale nelle materie in cui sia lo Stato che le Regioni possono
legiferare e la soppressione del controllo obbligatorio sulle leggi regionali stabilita per effetto
della nuova formulazione dell'art. 127 della Costituzione prevista dall'art. 8 della legge
costituzionale n. 3/2001.
Il legislatore costituente ha rovesciato, in linea di massima, il criterio di ripartizione
della potestà legislativa fra Stato e Regioni assegnando invece a queste ultime, con un criterio
residuale che costituisce il vero punto di svolta per la realizzazione di un ampio federalismo,
<
Il vuoto nel rapporto Stato-Regioni ed i tentativi per colmarlo: la c.d. legge "la Loggia"
(legge 5 giugno 2003, n. 131, recante "Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della
Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3").
L'abrogazione dell'art. 124 Cost. ha creato un vuoto nel rapporto tra lo Stato e le
Regioni venendo a mancare la figura del Commissario del Governo che costituiva la "cerniera" tra
governo centrale e quello locale.
L'abrogazione della norma costituzionale concernente il Commissario del Governo (art. 124)
appariva incomprensibile, soprattutto se collegata all'eliminazione del sistema dei controlli. Non
era chiara la ragione che aveva guidato il legislatore della riforma a fare giustizia di una figura
già ritenuta emblematica del ruolo attribuito allo Stato nell'ordinamento dei poteri locali.
Fa riflettere la circostanza, ben nota, che al Commissario del Governo non erano
affidati solo compiti attinenti al regime dei controlli sulle leggi e sugli atti amministrativi
regionali. Il Costituente volle infatti attribuirgli, come potestà di elezione, la sopraintendenza
alle funzioni amministrative esercitate dallo Stato e il coordinamento con quelle esercitate dalle
Regioni.
Il vuoto è stato colmato in sede di adeguamento dell'ordinamento alla legge
costituzionale n.3/2001 con la legge 5 giugno 2003, n. 131 che, all'art'art. 10, comma 7, ha
stabilito che in ogni Regione a statuto ordinario il Prefetto preposto all'ufficio territoriale del
Governo avente sede nel capoluogo regionale svolge le funzioni di rappresentante dello Stato per i
rapporti con il sistema delle autonomie.
L'iter della transizione federale non si esaurisce certo nella sola riforma del titolo
V, parte II, della Costituzione.
Potrebbero seguire ulteriori interventi di revisione costituzionale: la modifica del sistema parlamentare, l'istituzione di una Camera delle autonomie territoriali, l'integrazione della Commissione per le questioni regionali.
L'art. 114 Cost., nel suo testo revisionato, sancisce la pari dignità costituzionale di comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato, che nel loro insieme costituiscono la "Repubblica", una devolution ad ampio raggio di competenze normative ed amministrative verso gli ordinamenti locali, secondo le regole volute dal principio di sussidiarietà, cui la riforma ha conferito espresso fondamento costituzionale (art. 118 Cost.)
Nel riparto delle funzioni amministrative, invece è superata ogni forma di parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa, con il conseguente spostamento del baricentro dell'intero sistema amministrativo verso l'Amministrazione locale; le funzioni amministrative sono svolte in primis dai comuni.
Il superamento di ogni forma di controllo preventivo coinvolge, altresì, le procedure relative al controllo di legittimità costituzionale delle leggi regionali che da preventivo si trasforma in successivo. Scomparso l'iter procedimentale del rinvio governativo e seguente riapprovazione regionale della legge, il controllo di costituzionalità può intervenire solo successivamente all'entrata in vigore della legge regionale, come avviene per le leggi dello Stato.
Secondo il nuovo art. 127 della Costituzione, infatti, il Governo e la Regione si pongono sullo stesso piano, essendo prevista la possibilità per entrambi di ricorrere alla Corte costituzionale, entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto.
La funzione prefettizia e l'U.T.G. nell'ambito della transizione federale.
Il lungo e complesso iter di attuazione della transizione federale propone necessariamente la ricerca di un nuovo equilibrio nei rapporti istituzionali tra lo Stato come "pluralità di ordinamenti territoriali", le regioni e le autonomie locali, non più impostati secondo una logica piramidale di gerarchia e di tutele parallele, ma coinvolti in un processo di decentramento, autonomia e cooperazione fattiva, che vede il Prefetto al centro di questa fase di profondo rinnovamento.
Per lungo tempo i prefetti, oltre a svolgere funzioni di rappresentanza governativa nelle province, erano la vera autorità locale sul territorio.
Con l'istituzione delle regioni ordinarie attuatesi negli anni '70, il ruolo prefettizio subì una caduta d'intensità per quanto concerneva i controlli sugli atti amministrativi degli enti locali; ma proprio per la caratterizzazione "generalista" delle funzioni, nonché della capacità di adeguamento alle novità, il Prefetto è rimasto ben saldo, nella consapevolezza, da parte dello Stato, della necessità ed impossibilità di sostituzione di tale organo, quale collante essenziale tra realtà locali e potere centrale.
Nella pur incompiuta caratterizzazione "federalista" della Repubblica appare fondamentale la presenza sul territorio di una rappresentanza organica che funga da "raccordo" istituzionale tra "centro" e "periferia". Si tratta di un "presidio ineliminabile", secondo l'esplicito riferimento del Presidente della Repubblica.
La peculiare funzione di rappresentanza generale del Governo nella provincia è un importante momento di contatto per le politiche territoriali, che dal basso si muovono in direzione dell'apparato centrale dello Stato, per assicurare l'uniformità necessaria all'indirizzo politico generale e certezza di interlocuzione, in nome della prioritaria vocazione di unità nazionale, ed agendo, al contempo, in favore del consolidamento delle autonomie locali e regionali secondo i fondamentali dettami tanto di una democrazia comunitaria, moderna e pluralista, quanto di una modalità di amministrazione "condivisa" nei principi della legalità e del risultato.
L'attuazione del D.L.vo 30 luglio 1999, n.300, nel riformare la struttura ed
i compiti dei ministeri nell'ottica di una maggiore razionalizzazione, rappresenta un tassello
fondamentale nell'incompleto impianto dell'ordinamento della Repubblica.
La legge 8 giugno 1990, n. 142, ha attribuito la nuova fisionomia al modo di
essere dei comuni e delle province, conferendo alle regioni facoltà di legislazione e
programmazione.
La legge 7 agosto 1990, n. 241, ha garantito la partecipazione del cittadino al
procedimento amministrativo.
La legge 15 marzo 1997, n. 59 (Bassanini 1), ha iniziato a delineare un modello di
Stato meno accentrato con una peculiare ripartizione di competenze fra apparato centrale,
periferico ed organizzativo-autonomo degli enti locali. Lo snellimento e la semplificazione
dell'intera struttura organizzativa "per ministeri" poggia sull'accorpamento degli uffici in pochi
centri decisionali, competenti per grandi aree di funzioni, ridimensiona notevolmente il ruolo
degli uffici di staff e line posti alle dirette dipendenze dei ministri e prende vita la figura
giuridica ed amministrativa dell'Agenzia pubblica, braccio operativo dei dicasteri. E' agevole il
chiaro riferimento alle indipendents agencies del modello anglosassone. Storicamente, l'Agenzia
riecheggia vagamente le antiche aziende che facevano parte del sistema organizzativo ministeriale
in auge nello Stato piemontese, e che il Cavour intese sopprimere nel 1853.
Con la revisione del titolo V, non poteva nel mutato contesto istituzionale,
rimanere immune dal cambiamento la figura del Prefetto. Tale figura, infatti, risulta quella più
emblematica alla luce di questa ondata di rinnovamento, che ha investito il nostro Paese.
La figura prefettizia si è rinnovata con la nuova qualifica specifica di titolare dell'ufficio territoriale del Governo, dove, ai sensi dell'art.11 del D.lg. n.300/99 nell'ambito della riorganizzazione dei ministeri, è previsto l'accorpamento dei compiti degli uffici periferici delle amministrazioni diverse dagli affari esteri, della giustizia, della difesa, del tesoro, delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni e delle attività culturali.
La riforma dell'amministrazione periferica dello Stato ha comportato,
infatti, la trasformazione delle prefetture negli Uffici territoriali del Governo.
Gli uffici territoriali del governo mantengono tutte le funzioni di competenza delle
prefetture, assumono quelle ad essi assegnate dal predetto decreto e, in generale, sono titolari di
tutte le attribuzioni dell'amministrazione periferica dello Stato non espressamente conferite ad
altri uffici. Sono in ogni caso fatte salve le competenze spettanti alle regioni a statuto speciale
e alle province autonome.
Negli Uffici territoriali del Governo confluiscono le funzioni dei ministeri
dell'interno, delle infrastrutture e trasporti, delle attività produttive e del lavoro e delle
politiche sociali. L'accorpamento, nell'ambito dell'ufficio territoriale del governo, delle
relative strutture, è stato disciplinato - ma non ancora attuato, in attesa dei relativi
decreti interministeriali - con il D.P.R. 17/5/2001, n.287, che dovrà garantire la concentrazione
dei servizi comuni e delle funzioni strumentali da esercitarsi unitariamente, assicurando
un'articolazione organizzativa e funzionale atta a valorizzare la specificità professionali, con
particolare riguardo alle competenze di tipo tecnico.
L'esclusione da tale accorpamento, come già accennato, è prevista, in via espressa e
tassativamente, solo per le strutture periferiche degli affari esteri, della giustizia, della
difesa, dell'economia e delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni e delle attività
culturali, che sono però chiamate a partecipare alle conferenze ausiliarie del titolare
dell'U.T.G..
Il conferimento di funzioni e compiti amministrativi operato in favore del sistema autonomistico implica un riassetto dell'amministrazione statale che, muovendo dal presupposto di un sua drastica riduzione, deve evitare, da un lato, duplicazioni e sovrapposizioni e, dall'altro, potenziare le funzioni unitarie essenziali mantenute allo Stato, affinché sia assicurata la tenuta complessiva del sistema.
Il riassetto funzionale operato a favore di regioni, province e comuni non fa venir meno, infatti, la necessità del raccordo funzionale con lo Stato ai fini di un corretto ed efficace funzionamento globale del sistema.
Come emerge dalla relazione illustrativa allo schema del decreto
n.300/1999, la riforma risponde a due finalità:
1) completare la trasformazione in senso autonomistico dello Stato con
un'amministrazione periferica che collabori ed interagisca con il sistema delle autonomie locali;
2) applicare agli uffici locali dell'amministrazione centrale i principi di
responsabilità e di unicità, in modo da superare frammentazioni, duplicazioni ed interferenze.
La "direzione" della riforma è quella di avere una voce sola dello Stato in periferia.
Sembra, quindi, sostenibile che nel disegno generale della riforma la dimensione territoriale viene a configurarsi come un sistema che mira a caratterizzarsi per una compresenza integrata tra Stato ed autonomie, tra loro equiordinati.
E, difatti, l'art. 11 del D.L.vo n.300, raccogliendo l'input della delega
conferita con la legge n.59/1997, mira a realizzare nell'Ufficio territoriale del Governo il centro
per la razionalizzazione della rappresentanza periferica statale sotto il profilo:
a) funzionale in quanto l'U.T.G. viene definito organo periferico a competenza "generale"
dello Stato e, quindi, momento di saldatura del sistema in periferia;
b) strutturale poiché, a fronte di una elevata frammentazione organizzativa dello Stato sul
territorio, si realizza una riarticolazione territoriale delle amministrazioni seguendo percorsi di
concentrazione.
Come si dirà di seguito, però, la realizzazione ha trovato corrispondenza solo parziale
negli obiettivi prefissati dalla legge Bassanini 1.
Il quadro delle competenze dell'U.T.G. è delineato dal D.P.R. 17/5/2001, n. 287.
L'Ufficio è definito quale struttura del Governo sul territorio a competenza generale che fa parte dell'organizzazione periferica del Ministero dell'Interno dal quale dipende.
I compiti sono disciplinati dall'art. 1 del D.P.R. 287, che affida
all'Ufficio:
a) il supporto al prefetto nell'esercizio delle funzioni di rappresentanza generale del
Governo, di coordinamento delle pubbliche amministrazioni statali sul territorio e
nell'espletamento dei compiti di collaborazione a favore delle regioni e degli enti locali
interessati;
b) il supporto al prefetto nell'esercizio delle funzioni di autorità provinciale di pubblica
sicurezza nonché nell'espletamento dei compiti in materia di difesa civile e protezione civile;
c) il supporto al prefetto del capoluogo regionale nell'esercizio delle funzioni di
commissario del Governo in posizione di dipendenza funzionale dal Presidente del Consiglio dei
Ministri (come già detto, a figura del Commissario di Governo è ora sostituita dal Rappresentante
dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie ai sensi della legge 5 giugno 2003,
n.131)
d) l'esercizio a livello regionale o provinciale di funzioni e compiti del Ministero
dell'interno;
e) l'esercizio a livello periferico delle funzioni e dei compiti, non affidati ad agenzie dei
Ministeri delle attività produttive, delle infrastrutture e dei trasporti e del lavoro, della
salute e delle politiche sociali, avvalendosi del personale assegnato dalle rispettive
amministrazioni;
f) l'esercizio a livello periferico delle funzioni per le quali il Ministero dell'ambiente e
della tutela del territorio e le Agenzie per le normative e i controlli tecnici e per la proprietà
industriale ritengono di avvalersi, sulla base di apposite convenzioni, degli Uffici del Governo;
g) l'esercizio a livello periferico delle funzioni per le quali disposizioni di legge o di
regolamento prevedono l'avvalimento, da parte delle altre amministrazioni dello Stato, degli Uffici
del Governo.
Dalla normativa di base e dal decreto di attuazione, emerge, pertanto, che
l'U.T.G. rappresenta il momento di saldatura dell'amministrazione statale su scala territoriale
realizzato mediante:
a) l'integrazione funzionale e strutturale di alcuni uffici statali periferici;
b) la possibilità, per alcune amministrazioni, di avvalersi dell'U.T.G., con la
prestazione, da parte di questo, di un servizio e la condivisione di una funzione, ferme restando
le rispettive autonomie;
c) il collegamento con l'U.T.G. delle amministrazioni escluse (ex art. 11, comma 5 del
D.L.vo 300) mediante la partecipazione dei responsabili delle rispettive strutture periferiche alla
Conferenza permanente, di ausilio al titolare dell'Ufficio.
I compiti di cui alle lettere a), b) e d) del citato art. 1 D.P.R. n.287/2001 rientrano in quelli tradizionalmente attribuiti al Prefetto e non abbisognano di particolari approfondimenti.
Per i compiti di cui alla lettera e), il regolamento ha accorpato unicamente la gestione che attiene ai servizi comuni ed alle funzioni strumentali, mentre sono escluse le altre materie di competenza delle amministrazioni centrali di provenienza, dal momento che l'art. 11 del D.L.vo 300 ha sancito, comunque, la dipendenza funzionale dell'U.T.G. o di sue articolazioni dai ministeri di settore per gli aspetti relativi alle materie di competenza. La diretta referenzialità dei singoli uffici periferici confluiti con i ministeri di rispettiva appartenenza può far nascere delle conflittualità all'interno degli U.T.G.: infatti, viene a determinarsi una situazione nella quale i Ministri di settore emanano le direttive che il prefetto, in base al comma 2, dell'art. 12 del regolamento deve attuare a livello periferico; però, in base al successivo comma 3, l'attività di gestione è attribuita direttamente all'articolazione interna e, quindi, tale attività non può essere assegnata dal Prefetto.
La situazione si proietta parallelamente sull'attività di valutazione dei dirigenti compiuta dal Prefetto, che dovrà riferire all'amministrazione di appartenenza e non al Ministero dell'Interno (cfr. art. 13, comma 2); la discrasia è evidente anche in relazione al controllo strategico (art. 13, comma 3) che rimane nella competenza del servizio di controllo interno di ciascuna amministrazione, mentre è il Prefetto ad effettuare la valutazione del dirigente.
L'analisi degli uffici territoriali del Governo presenta due inconvenienti:
a) l'accorpamento non riguarda rami importanti delle amministrazioni statali periferiche;
b) le amministrazioni periferiche che dovranno confluire negli U.T.G., non sono
uniformate tra loro, eccetto le funzioni strumentali ed i servizi comuni.
Ne consegue che, pur se la direzione della riforma è giusta - avere un'unica voce dello Stato in periferia - quanto realizzato non è stato sufficientemente coraggioso, con evidenti possibilità che possano nascere conflitti.
Quanto alle amministrazioni confluite, forse avrebbe accelerato l'attuazione del disegno contenuto nella legge 59/1997 una soluzione con uffici periferici autonomi aventi l'obbligo di relazione sull'attività svolta, riservando comunque al Prefetto titolare dell'U.T.G. un potere di indirizzo.
Il Prefetto, quale titolare dell'U.T.G. è coadiuvato, ai sensi dell'art. 11, comma 5, del D.L.vo n.300/1999, da una conferenza permanente, da lui presieduta e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato, compresi i titolari delle amministrazioni periferiche degli affari esteri, della giustizia, della difesa, del tesoro, delle finanze, della pubblica istruzione, dei beni e delle attività culturali. Le principali e più significative attribuzioni della conferenza permanente riguardano la raccolta e l'elaborazione di elementi valutativi necessari all'esercizio delle funzioni di impulso e coordinamento da parte del Governo; studi, rilevazioni e verifiche volte a razionalizzare e semplificare l'organizzazione delle strutture periferiche statali; promozione di procedure volte a semplificare e contenere i costi attraverso la stipula di accordi tra enti ed uffici; promozione di centri interservizi comuni a più amministrazioni e predisposizione ed attuazione di apposite convenzioni; promozione e coordinamento di iniziative finalizzate all'attuazione delle leggi generali sul procedimento amministrativo, sulla cooperazione delle PP.AA. e sull'adeguamento tecnologico delle dotazioni strumentali; sovrintendenza sulle Amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo.
Molto utile sarebbe attribuire alla Conferenza compiti in tema di organici e di mobilità, anche provvisoria, di personale presso gli uffici per meglio rispondere ad esigenze locali e contingenti.
Il titolare dell'U.T.G., svolgendo delicati compiti di coordinamento ed impulso politico-amministrativo si pone come figura saliente per la tutela democratica, agendo in favore del consolidamento delle autonomie locali e regionali. Coordinamento inteso come relazione tra organi pari ordinati, in guisa da svolgere la loro attività in maniera armonica e tendente ad un interesse comune. Proprio perché in presenza di soggetti equiordinati, si rende necessaria la presenza del coordinatore, nel caso di specie il Prefetto, quale "unificatore" di tutte le attività secondo un disegno coerente ed organico in vista di comuni risultati, evitando conflitti o contraddizioni, nel convogliare ed armonizzare le varie volontà, mai in posizione sopra ordinata.
Carlo Schilardi
* con la collaborazione del Dott. Vincenzo Panico e del Dott. Mario Vasco