Approfondimento
L'evoluzione storica della figura del Prefetto
L'importanza del Prefetto durante il periodo liberale emerge dalle definizioni che
i giuristi di quel periodo diedero dell'istituto. Giuseppe Saredo affermò: "Ogni Prefetto è un
Ministro nella provincia che governa", Teodosio Marchi aggiunse: "Se si ha però riguardo al fatto
che la legge concede al Prefetto ciò che non concede al Ministro, che gli concede cioè di fare in
caso di urgenza i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio (articolo 3
della legge comunale e provinciale del 1865), si sarebbe tentati a concludere che un Prefetto è
nella provincia qualcosa di più di un Ministro nello Stato".
Gli storici concordano con la valutazione dei giuristi Gaetano Salvemini definì, infatti, il
periodo liberale "prefettocrazia". Durante il periodo liberale, era frequente la nomina a Prefetto
tra personalità politiche di primo piano: Alfonso La Marmora fu Prefetto di Napoli; Luigi Torelli,
Ministro dell'Agricoltura nel 1864-1865, resse le Prefetture di Bergamo, Pisa, Palermo, Venezia;
Giuseppe Gadda, Ministro dei lavori pubblici nel 1869-1873, fu Prefetto di Foggia, Perugia, Padova,
Roma; il marchese di Rudinì, Ministro dell'Interno nel 1869 e Presidente del Consiglio dei Ministri
nel 1891-1892 e nel 1896-1898, fu Prefetto di Napoli; Guglielmo Capitelli, già sindaco di Napoli,
fu Prefetto di Bologna e di L'Aquila; il marchese Alessandro Guiccioli, già deputato e sindaco di
Roma, fu Prefetto di Firenze e di Torino.
L'atto di nascita del Prefetto italiano è il regio decreto 9 ottobre 1861 n. 250 secondo cui
i governatori delle province avrebbero dovuto assumere il titolo di Prefetto, gli intendenti di
circondario quello di sottoPrefetto e i consiglieri di governo quello di consiglieri di prefettura.
Nel nuovo regno, fu ripristinato il titolo attribuito, durante il dominio francese nella Penisola,
ai rappresentanti periferici del Governo preferendolo a quello di "governatore" che era stato
adoperato dalla legge comunale e provinciale piemontese 23 ottobre 1859 n. 3702. Il titolo di
Prefetto fu prescelto perché il ricordo dei Prefetti del periodo napoleonico era associato
all'unico esempio di amministrazione moderna e fattiva che l'Italia avesse sperimentato.
Le funzioni del Prefetto furono disciplinate dall'articolo 3 della legge comunale e
provinciale 20 marzo 1865 n. 2248 allegato A che è opportuno riportare perché le disposizioni
fondamentali sull'istituto prefettizio sono rimaste quasi immutate fino ad oggi.
Il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a
lui demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti dell'autorità amministrativa
elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione secondo la legge 20 novembre 1859 n. 3780;
provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia sull'andamento di tutte le
Pubbliche Amministrazioni, ed in caso d'urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei
diversi rami del servizio; sopraintende alla pubblica sicurezza, ha il diritto di disporre della
forza pubblica, e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell'Interno, e ne eseguisce
le istruzioni".
La funzione fondamentale del Prefetto è quella di rappresentare il potere esecutivo, in altre
parole il Governo nel suo insieme, nella provincia: è questa la pietra angolare dell'istituto sulla
quale si fonda il conferimento di innumerevoli attribuzioni. Nel periodo liberale non vi fu legge
riguardante l'amministrazione periferica dello Stato che non chiamasse in causa il Prefetto. I
compiti più importanti del Prefetto durante il periodo liberale furono il controllo degli Enti
Locali e la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica. Il Prefetto era nominato con decreto
reale, su deliberazione del Consiglio dei Ministri adottata sulla proposta del Ministro
dell'Interno, con lo stesso procedimento era traslocato da una sede all'altra.
Il Governo aveva la più ampia discrezionalità nella scelta dei Prefetti, nessun requisito era
prescritto per la nomina. La stessa discrezionalità aveva il Governo nel trasferire i Prefetti da
una sede all'altra o nel destituirli. La scelta dei Prefetti avvenne, fino alla fine del secolo,
nominando, specialmente nelle città più importanti, eminenti uomini politici, donde la
denominazione "prefetti politici" e, nelle sedi minori, funzionari provenienti dalla carriera
prefettizia, cioè consiglieri di prefettura o sottoprefetti, denominati "prefetti amministrativi o
di carriera". Dagli inizi del secolo XX, la scelta cadde prevalentemente sui funzionari della
carriera prefettizia.
I Prefetti "politici" e quelli "amministrativi" furono però un corpo omogeneo. Il criterio di
nomina corrispondeva alla concezione del Prefetto, considerato un amministratore piuttosto che un
funzionario. Vittorio Emanuele Orlando mise in evidenza come il sistema misto nella scelta dei
Prefetti fosse giustificato perché "la qualità di Prefetto, specialmente nelle grandi città, non
richiede solo attitudini strettamente burocratiche, ma una mente vasta e direttiva, capace di
intendere e di risolvere questioni d'indole piuttosto politica che amministrativa".
Lo Stato liberale volle dare ai cittadini un'immagine solenne delle nuove istituzioni; perciò
le Prefetture, specialmente quelle delle capitali degli Stati preunitari, furono sistemate in
importanti palazzi storici che assunsero la denominazione di "palazzo del Governo". Le sedi delle
Prefetture e gli alloggi prefettizi furono arredati signorilmente e anche le sedi delle
sottoprefetture e l'alloggio di servizio dei sottoprefetti nei capoluoghi di circondario furono
convenientemente ammobiliati. Il regolamento per l'esecuzione della legge comunale e provinciale
precisava, al riguardo, che per i locali e la mobilia degli alloggi dei Prefetti e sottoprefetti
doveva tenersi conto del grado e dell'importanza dei funzionari chiamati a farne uso e del "decoro
voluto per la città in cui risiedono", ma che si doveva, allo stesso tempo, "non abbondare
soverchiamente nella provvista di oggetti di puro lusso.
Il Prefetto indossava, nelle cerimonie solenni, l'uniforme confezionata secondo il modello
stabilito dal r.d. 11 dicembre 1859 per i governatori delle province sabaude che, come si è detto,
furono denominati Prefetti nel nuovo regno. Il trattamento economico dei Prefetti era più elevato
rispetto a quello attribuito allora ai direttori generali e ai segretari generali dei Ministeri;
inoltre, ai Prefetti delle sedi più importanti erano concesse indennità per spese di rappresentanza
(legge 25 giugno 1877 n. 325). Il Prefetto e il sottoPrefetto godevano della "garanzia
amministrativa" per la quale non potevano essere chiamati a rendere conto dell'esercizio delle loro
funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposti a procedimento penale per
alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del Re, previo parere del Consiglio di Stato
(articolo 8 della legge 20 marzo 1865 n. 2248).
La garanzia amministrativa era riconosciuta anche ai sindaci. Questo istituto derivava
dall'articolo 8 della legge comunale e provinciale piemontese 23 ottobre 1859 n. 3702. La
maggioranza dei giuristi del periodo liberale fu contraria al mantenimento di questo istituto che
non trovava riscontro negli ordinamenti belga e francese, ai quali si era ispirata la legge
comunale e provinciale italiana. La "garanzia amministrativa" fu però conservata perché la sua
applicazione servì a proteggere il funzionamento delle istituzioni amministrative. In un periodo di
aspre lotte politiche, quale fu quello di fine secolo, le autorizzazioni a procedere richieste
contro i sindaci furono: nel 1891 novantotto delle quali solo due respinte; nel 1893,
settantacinque delle quali una sola respinta; nel 1894, settantotto, tutte accolte; nel 1895,
trentanove, tutte accolte. Negli stessi anni, non fu presentata alcuna richiesta di autorizzazione
a procedere contro Prefetti o sottoprefetti.
Il Prefetto era il tutore delle prerogative dell'Amministrazione Pubblica nei confronti del
potere giudiziario ed era perciò competente a promuovere i conflitti di attribuzione per impedire
che i giudici ordinari invadessero il campo riservato al potere amministrativo. Dopo sette anni
dalla nomina, i Prefetti potevano essere nominati senatori (articolo 33 n. 17 dello Statuto
albertino). L'appartenenza alla camera vitalizia era perciò compatibile con l'esercizio delle
funzioni prefettizie e, durante il periodo liberale, la maggior parte dei Prefetti delle città più
importanti ottenne la nomina a senatore.
L'appartenenza a vita alla Camera alta garantiva ai Prefetti una notevole indipendenza nei
confronti del Governo sia per il prestigio derivante dalla carica, sia perché l'eventuale
destituzione danneggiava meno il Prefetto-senatore rispetto agli altri colleghi. Il
senatore-Prefetto poteva anche svolgere, compatibilmente con l'esercizio delle sue funzioni,
attività legislativa (normalmente, i Prefetti-senatori non partecipavano alle sedute del Senato).
Durante il periodo liberale, furono nominati senatori 51 Prefetti. La storia dei Prefetti è storia
locale perché il Prefetto è un funzionario che trascorre la carriera passando da un capoluogo
all'altro di provincia: perciò la sua attività, e anche la sua vita privata, si intrecciano con
quelle delle località nelle quali è inviato ad operare.
Il legame con le realtà locali fu accentuato, durante il periodo liberale, perché i Prefetti
e i funzionari di prefettura appartenevano al ruolo dell'amministrazione provinciale dell'Interno,
distinto dal ruolo del personale dell'amministrazione centrale del Ministero . Questo rapporto fu
attenuato all'inizio del periodo fascista quando i due ruoli furono unificati (regio decreto 11
novembre 1923 n. 2395), con la conseguenza che, da quel momento, i funzionari di prefettura
poterono prestare servizio sia presso il Ministero sia in periferia.
Il rapporto diretto con le diverse realtà locali ebbe l'effetto che, entro la cornice di un
ordinamento giuridico uniforme, l'azione dei Prefetti variò notevolmente nelle varie province, in
relazione alla situazione economico-sociale e alla personalità dei singoli Prefetti. Si possono
però individuare alcuni motivi di fondo che ispirarono la loro azione durante il periodo liberale
perché in quell'epoca i medesimi costituivano un corpo omogeneo per cultura e provenienza sociale.
Tenendo presenti queste considerazioni, documentate nei ricordi biografici scritti da alcuni
Prefetti e nelle relazioni ufficiali inviate al Ministero dell'Interno, si possono distinguere, con
qualche approssimazione, tre fasi dell'attività dei Prefetti durante il periodo dall'unità d'Italia
alla prima Guerra Mondiale.
La prima, vide protagonisti i Prefetti in carica nei primi anni del Regno che si possono, a
ragione, denominare "i Prefetti dell'unificazione politica"; la seconda, quelli in servizio dopo il
1870, ai quali è dovuto il riconoscimento di "Prefetti dell'unificazione amministrativa"; la terza,
quelli in servizio dall'inizio del secolo XX fino alla prima Guerra Mondiale, ai quali spetta
l'appellativo di "Prefetti giolittiani".
I Prefetti dell'unificazione politica
La vita e l'opera dei Prefetti durante i primi anni del Regno d'Italia sono state
descritte da Ernesto Ragionieri. In uno studio risalente al 1961, che inaugurò la storiografia
italiana sui Prefetti, il Ragionieri mise in luce come i 59 Prefetti in carica al momento della
proclamazione del Regno d'Italia, avessero un altissimo senso della loro funzione. L'illustre
storico ha scritto: "rappresentare in un capoluogo di provincia, grande o piccolo che fosse, il
nuovo Stato nazionale era un compito che questi uomini avvertivano quasi come espressione di un
ordine civile e politico superiore [...] questi funzionari sentivano come grande missione della
loro vita la rappresentanza del nuovo Stato nazionale".
I Prefetti erano allora un corpo omogeneo per origine sociale e formazione culturale, che
coincidevano con la provenienza sociale e con la cultura della classe politica e della ristretta
classe dirigente dell'epoca.
Furono, probabilmente, queste caratteristiche, piuttosto che le leggi di indirizzo
accentratore, che permisero a quei funzionari di realizzare, in pochi anni, la fusione delle
province degli Stati preunitari in un grande Stato nazionale. Al raggiungimento di quello scopo
contribuirono anche i frequenti trasferimenti ai quali i Prefetti, ed in generale tutti i
funzionari statali, erano soggetti, per cui si formò ben presto un'Amministrazione nazionale. In
quegli anni, il sardo Pes di Villamarina fu Prefetto di Milano, il siciliano Fardella di Torrearsa
Prefetto di Firenze, il valtellinese Luigi Torelli Prefetto di Palermo, il romagnolo Giuseppe
Pasolini Prefetto di Torino, l'umbro Filippo Gualtiero Prefetto di Napoli, il fiorentino Carlo Bosi
e il sardo Campi Bazan Prefetti di Macerata.
Un esempio, tratto dalle memorie di Giuseppe Giannelli, consigliere di Prefettura e
sottoprefetto in varie province negli anni successivi all'unificazione, dimostra come l'omogeneità
sociale dei membri della carriera prefettizia con la classe dirigente dell'epoca sia stata elemento
determinante nel favorire l'unificazione del Paese.
I Prefetti dell'unificazione amministrativa
Con il trasferimento della Capitale a Roma, l'Unità d'Italia era compiuta.
Ugualmente, con l'approvazione della legge 20 marzo 1865 n. 2248 che reca appunto il titolo "Legge
per l'unificazione amministrativa", le scelte politiche circa la struttura del nuovo Regno erano
compiute. Quindi, il compito principale dei Prefetti, sottoprefetti e consiglieri di Prefettura in
servizio in quegli anni, fu quello di indirizzare gli Enti Locali entro i binari della nuova
legislazione unitaria. In quel periodo, risolti i problemi dell'unificazione nazionale, si impose
la "questione amministrativa" come testimoniano le discussioni parlamentari e il grandissimo numero
di scritti pubblicati in quegli anni sulle istituzioni amministrative del nuovo Regno.
I Prefetti dell'epoca ebbero chiara coscienza del compito al quale erano chiamati come
risulta dalle relazioni inviate al Ministero dell'Interno, dai loro ricordi biografici,
dall'indirizzo dato alla loro azione. Un testimonianza eloquente è fornita da Giacinto Scelsi, che
può essere considerato il modello del Prefetto amministrativo. Giacinto Scelsi, siciliano emigrato
a Torino, prese parte con Crispi all'impresa dei Mille e dopo la proclamazione del Regno fu
nominato Prefetto a 36 anni iniziando una carriera che lo vide a capo di 15 province in tutte le
Regioni italiane.
Secondo lo Scelsi, il compito istituzionale del Prefetto era: "attuare la buona
amministrazione con criteri moderni" ciò presupponeva la conoscenza delle condizioni
economico-sociali della provincia. A questo scopo, il Prefetto, nel breve periodo durante il quale
rimase a Foggia (un anno e quattro mesi), condusse a termine un'accurata ricerca di statistica
sociale sulle condizioni della provincia e fece approvare dal consiglio provinciale un complesso
piano di bonifica e irrigazione e la concessione di contributi per la costruzione di strade
comunali che trassero il promontorio garganico dall'isolamento. Quello che aveva fatto a Foggia,
Scelsi lo fece anche nelle altre province nelle quali esercitò le sue funzioni. Altri Prefetti lo
imitarono, fra gli altri, Torelli per Venezia, Sormani Moretti per Verona, Tegas per Lucca, anche
le grandi inchieste parlamentari di quel periodo: quella del 1875 sulle condizioni sociali ed
economiche della Sicilia e quella del 1877 sulle condizioni dei contadini, nota come "inchiesta
Jacini", si fondano sulla documentazione raccolta dai Prefetti.
I Prefetti si assunsero anche il compito di artefici della modernizzazione delle antiquate
strutture economico-sociali ereditate dagli Stati preunitari. Particolarmente elevato risulta il
livello culturale dei Prefetti e dei funzionari della carriera prefettizia in quel periodo, come
dimostrano gli esempi seguenti. La prima traduzione italiana dall'inglese dell'opera di John Stuart
Mill" La libertà classico del pensiero liberale" fu eseguita dal Prefetto di carriera Giuseppe
Marsia.
Giuseppe Prezzolini così ricorda il padre, il Prefetto di carriera Luigi Prezzolini, che
resse, durante gli anni 1884-1899, le Prefetture di Grosseto, Sondrio, Macerata, Belluno, Reggio
Emilia, Udine, Novara: "Il primo letterato che conobbi fu mio padre. Veramente, mio padre era
Prefetto, ma, uomo d'una bella cultura umanistica, portava, con sé, di residenza in residenza, una
biblioteca".
I Prefetti giolittiani
Nico Randeraad ha esplorato gli archivi delle Prefetture di Venezia, Bologna e
Reggio Calabria, mettendo in luce come il compito principale dei Prefetti nel corso delle elezioni
fosse quello di "assicurarsi che venisse rispettata la legge"
Occorre, infatti, considerare che, fino alla riforma attuata con la legge 30 giugno 1912 n.
665 la quale introdusse il suffragio universale maschile (le prime elezioni politiche con la nuova
legge si tennero il 26 ottobre 1913), il corpo elettorale era rappresentato da un'esigua minoranza
della popolazione. La lotta politica non si svolgeva perciò fra partiti politici organizzati, ma
fra consorterie e gruppi di interessi. Si tengano presenti i seguenti dati:
nel 1865, gli elettori erano il 2% della popolazione
nel 1890, gli elettori erano il 9% della popolazione
nel 1909, gli elettori erano l'8,3% della popolazione.
Soltanto nelle elezioni del 1913 gli aventi diritto al voto raggiunsero il 23,2% della
popolazione. Pertanto, fino alla prima Guerra Mondiale, gli interventi dei Prefetti nelle elezioni
si svolsero in assenza di partiti organizzati. Con la formazione dei partiti politici organizzati,
gli interventi dei Prefetti non ebbero più spazio. Il Prefetto giolittiano è stato descritto da
Gaetano Natale. Giovanni Giolitti, l'immane burocrate com'era soprannominato, avendo trascorso
lunghi anni nell'Amministrazione pubblica, conosceva a perfezione la complessa macchina
amministrativa per cui le istruzioni ai Prefetti furono sempre chiare e precise, come ricorda nelle
sue memorie il Prefetto Amedeo Nasalli Rocca.
I Prefetti si sentirono perciò guidati da un esperto timoniere. Gaetano Natale ha scritto che
Giolitti "mise il Prefetto di fronte alla questione sociale. Lo diresse a comprenderla ed a
giudicarla nella sostanza più che nei riflessi politici".
1927 - 1956: Il Prefetto dal Fascismo alla Ricostruzione
L'"effetto Giolitti" sui membri della carriera prefettizia in particolare e, in
generale, su tutta la burocrazia italiana è durato a lungo ed ha avuto l'effetto di preservare,
almeno in parte, durante il periodo fascista, la Pubblica Amministrazione da eccessi e
prevaricazioni perché i funzionari entrati in carriera durante il precedente periodo del
liberalesimo giolittiano, si consideravano servitori dello Stato, piuttosto che del regime.
Lo ha testimoniato, nelle sue memorie, il socialista Giuseppe Romita che fu il primo Ministro
dell'Interno nel secondo dopoguerra. Romita ha scritto: "I Prefetti [...] non erano stati così ben
visti dai fascisti come si diceva. Effettivamente, taluni si erano posti a completo servizio del
regime, ma altri, la maggioranza, avevano adempiuto al proprio dovere impedendo ai gerarchetti
locali di compiere quelle prepotenze per le quali viceversa questi avevano una così profonda
vocazione.
In una Italia divisa in due, la situazione dei Prefetti divenne ancora più complessa
allorquando Mussolini, costituita la Repubblica Sociale (fine settembre '43), impartì a tutti i
Prefetti che il Governo Badoglio aveva esonerato dall'Ufficio, la direttiva di riprendere
immediatamente le loro funzioni nelle province ancora occupate dalle truppe tedesche.Nella stesura
delle schede biografiche dei Prefetti in servizio nel decennio 1946/56, molti di loro risultavano
già Prefetti nel periodo fascista o risultavano aver raggiunto gradi elevati nella carriera ed
ancora incaricati di ricoprire incarichi nei settori più delicati della Pubblica Amministrazione e
dello stesso Partito Nazionale Fascista (P.N.F.).
Nel ventennio fascista, risultano l'elevato grado di mobilità, l'accentuata precarietà della
funzione, la capacita mirata del P.N.F. di scegliere gli uomini da nominare Prefetti ed ai quali
affidare incarichi delicati, nonché i rapporti fra istituto prefettizio ed organismi del P.N.F. Il
mutamento frequente di sede, come è noto, costituisce una caratteristica peculiare dell'istituto
prefettizio ed evidenzia, a volte, correlazioni tra la sede ricoperta prima della nomina a Prefetto
e quella di successiva assegnazione, anche alla luce della regione geografica di provenienza del
funzionario o di eventuali legami con uomini politici locali.
La durata della permanenza in sede era in media di due anni e variava notevolmente in
relazione all'importanza della sede stessa. Durante il ventennio per ciascuna sede si sono
alternati in media 12 Prefetti, con variazioni che vanno da un minimo di 6 a Cremona ad un massimo
di 20 a Caltanissetta. Ancor più interessante è notare, poi, la frequenza con la quale il Governo
fascista ha fatto ricorso all'istituto dell'esonero temporaneo dalla funzione ed a quello del
collocamento a riposo per ragioni di servizio. Raramente fu fatto uso degli istituti della
disponibilità e dell'aspettativa e il collocamento a disposizione fu utilizzato come uno strumento
ordinario di allontanamento temporaneo dall'ufficio.
Il collocamento a disposizione è stato da sempre considerato uno strumento "punitivo" al
quale si ricollegava il conferimento di particolari incarichi. Spesso veniva utilizzato per rendere
disponibili sedi da affidare eventualmente a Prefetti politici e, ancor più spesso, per allontanare
il Prefetto in caso di contrasto con il locale Segretario Federale. Nonostante la circolare del
Duce del 1927 ed il rispetto rigido del protocollo, che formalmente considerava il Prefetto come la
prima Autorità locale, i Segretari Federali avevano sempre una corsia preferenziale per giungere al
Capo del Governo.
Nel caso di contrasto con il Prefetto, in effetti, era sempre quest'ultimo ad essere
allontanato proprio mediante il ricorso al collocamento a disposizione. I rapporti con i Segretari
Federali risultavano, generalmente, assai difficili tanto che nel 1940 il Sottosegretario agli
Interni Buffarini Guidi ritenne opportuno far chiamare nel Direttorio del P.N.F., un Prefetto anche
se proveniente dai ranghi del Partito fascista il cui inserimento doveva servire come elemento
moderatore nei rapporti fra Prefettura e Federazione fascista.La scelta cadde sul Prefetto Gaetani,
persona gradita anche ai Prefetti di carriera.
Il collocamento a disposizione o a riposo venne spesso usato anche nei confronti di quei
Prefetti che non erano in linea con la "politica fascista". È il caso, ad esempio, del Prefetto
Achille De Martino collocato a disposizione nel novembre '27 ed a riposo per ragioni di servizio
nel dicembre '27, dei Prefetti Paolo Bodo, Ottavio Gabetti, Furio Petroni, Giuseppe Spano ed anche
di Marcello Tallarigo, proveniente dal P.N.F, che fu Prefetto di Taranto dal febbraio '38
all'agosto '39. Nel periodo in cui rivestì tale incarico egli sciolse il Rettorato, allontanò il
Preside e chiese al Segretario del Partito l'allontanamento del Segretario Federale. La conseguenza
fu la nomina a Prefetto (Varese) del Segretario Federale Giuseppe Russi ed il collocamento a
disposizione del Direttorio del P.N.F., di Tallarigo, che vi rimase, però, un solo mese.
È il Prefetto Petroni ad individuare concretamente nel rapporto fra Segretario Federale -
Direzione del Partito - Ministero dell'Interno il meccanismo per giungere ad influenzare i singoli
Prefetti. Il controllo delle province, elemento su cui il Capo del Governo puntava per consolidare
il regime, portò inevitabilmente a contrasti con i dirigenti locali del partito. Il Governo si
trovò così - e questo fu uno dei motivi che portarono alla diramazione della circolare del 1927 -
da un lato a far leva sul corpo prefettizio per assicurare la presenza dello Stato nelle province
e, dall'altro, ad evitare condizionamenti da parte dei Segretari Federali, senza peraltro
contrastarne l'operato.
Il collocamento a disposizione, per la sua durata (3 anni) - pur non rappresentando un valido
mezzo di ricambio del corpo prefettizio in quanto il posto reso vacante non poteva essere
utilizzato - rispondeva pienamente alle esigenze del Governo.
Il collocamento a riposo per ragioni di servizio finì, invece, per divenire lo strumento
ordinario di rimozione dei Prefetti, necessario a consentire quel ricambio che il Governo
perseguiva da tempo. Si instaurò, così, la prassi di collocare a riposo per ragioni di servizio
tutti i Prefetti - salvo alcune eccezioni - al compimento del 35° anno di servizio.
L'avvicendamento continuo messo a punto dal P.N.F., attraverso la scelta degli uomini, (che ebbe
inizio nel novembre 1922, proseguì nel 1923 e nel 1926 per culminare nel vasto movimento del 1929)
risulta essere stato ispirato più dall'esigenza di creare un corpo prefettizio di fede fascista che
dalle necessità reali delle province.
Questa incessante opera, se pur lenta e graduale, ebbe il suo momento culminante nel luglio
del 1929 quando 67 Prefetti furono avvicendati con 37 trasferimenti di sede, 17 nomine, 19
collocamenti a riposo e 46 a disposizione. A questo movimento furono interessati 17 Prefetti
politici, 8 dei quali di prima nomina. E non mancano casi di Prefetti che hanno operato in due
distinti e contrastanti periodi come quello liberale e quello fascista, o quello fascista e quello
repubblicano.
La necessità primaria di Mussolini era quella di assicurare la continuità rispetto al vecchio
Stato liberale, di controllare l'opposizione (avversari politici) e di rafforzare il potere
esecutivo; in una parola ottenere il consolidamento del fascismo. Lo strumento più idoneo allo
scopo fu individuato nell'istituto prefettizio. La scelta si scontrò con le gerarchie del partito
uscite rafforzate dalla marcia su Roma e desiderose di vedere realizzate le loro aspettative di
comando. Mussolini cercò di risolvere la questione, come si è visto, con un innesto di fascisti nel
tessuto istituzionale.
Il Prefetto si riconfermava, almeno formalmente, la massima autorità della provincia ma i
contrasti con il Segretario Federale non solo rimasero ma si accentuarono. Il problema non fu
risolto neanche con la nomina a Prefetto di esponenti del Partito ma anzi, conseguentemente, si
verificò un aumento delle pressioni di quest'ultimo sulle nomine a Prefetto. Questa fu una delle
motivazioni che portarono alla normativa del 1937 che limitò numericamente la scelta dei Prefetti
politici (2/5 dei posti in organico). È stato sostenuto da parte degli studiosi che la
"fascistizzazione" della burocrazia non avvenne in conseguenza dell'immissione nei ruoli prefettizi
dei dirigenti di Partito, o di persone ad esso vicine, ma piuttosto per l'adesione, anche se
graduale, della burocrazia al regime.
Quest'ultimo fatto e l'adozione della normativa del '37 dimostrano quanto Mussolini fosse
poco preoccupato dagli orientamenti politici dei Prefetti in carriera. Ma è sostenibile - e taluni
lo dimostrano - che la "fascistizzazione" ci fu e fu massiccia. Lo testimonierebbe anche il numero
di nuovi Prefetti di sicura fede politica e ne sarebbe la dimostrazione il rapporto fra Prefetti di
carriera e quelli di provenienza politica nonché l'importanza degli incarichi ricoperti da questi
ultimi.
Nell'intento di mettere chiaramente in evidenza il legame con il P.N.F. nelle schede
biografiche sono state evidenziate tutte le benemerenze fasciste riconosciute, l'eventuale
iscrizione al P.N.F., prima che divenisse obbligatoria, nonché notizie riferite ai procedimenti di
epurazione e, nel tentativo di individuare i motivi che determinarono la nomina a Prefetto, i
legami con il Partito e le cariche ricoperte prima dell'incarico. Dei 332 Prefetti nominati nel
ventennio, 102 erano di provenienza politica e fra questi 67 avevano ricoperto la carica di
Segretario Federale.La concentrazione più alta si ebbe nel l940 quando su una dotazione organica di
110 Prefetti 67 non erano di carriera.
DAL 1950 AI NOSTRI GIORNI: L'EVOLUZIONE DEL PREFETTO NELL'AMBITO DELLA TRASFORMAZIONE DEL SISTEMA AMMINISTRATIVO ITALIANO
Massimo organo amministrativo periferico, terminale politico-operativo
dell'apparato della sicurezza, agente elettorale del governo, motore della vita economica e sociale
della provincia, tutore dell'ente locale, il prefetto non pare risentire, ancora negli anni '50 e
'60, della progressiva crisi dell'Amministrazione dell'Interno determinata dall'estendersi dei
compiti dello Stato e dalla conseguente crescita del numero delle amministrazioni dello Stato e con
lo spostamento del baricentro del governo in favore della Presidenza del Consiglio.
La Costituzione non nomina mai l'organo mentre prevede un Commissario del governo. Subito
dopo, la legge 8 marzo 1949, n. 277 riformula l'art. 19 del t.u.l.com.prov. 1934 mantenendo il
riconoscimento formale della posizione di eminenza del Prefetto rispetto alle altre cariche
amministrative periferiche in virtù del riconoscimento della rappresentanza dell'esecutivo nella
provincia e, conseguentemente, il carattere tendenzialmente "generale" del campo delle
attribuzioni. Vengono meno, tuttavia, molti dei compiti più incidenti presenti nella precedente
formulazione dell'art. 19.
L'unico settore di competenza che rimane integro è quello della sicurezza pubblica, anche in
relazione al rilevante potere di cui all'art. 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza
(t.u.l.p.s.), concernente l'amplissima facoltà del Prefetto di adottare atti contingibili e urgenti
per esigenze di sicurezza pubblica. Contemporaneamente, tuttavia, il nuovo testo dell'art. 19
cancella ogni ingerenza "tutoria" del prefetto sulla vita amministrativa degli Enti Locali (secondo
una linea di tendenza che parte dall'art. 5 Cost. e che verrà trasfusa nel nuovo ordinamento delle
autonomie locali), mentre forti resistenze si oppongono alla primazia prefettizia sugli altri
uffici periferici dell'amministrazione dello Stato.
In realtà, ogni discorso sull'istituto prefettizio, quale esso oggi è, non può che essere
ricostruito partendo dalla rappresentanza del governo e, conseguentemente, dal carattere
"generale", aperto delle attribuzioni prefettizie. È questo l'elemento fondamentale delle varie
competenze, anche minute, del Prefetto. Tale impostazione (che non presuppone, ovviamente, una
astratta "gerarchia" tra le competenze) discende direttamente dalla tradizione storica
dell'istituto, che si è sempre caratterizzato in primo luogo come il referente istituzionale delle
istanze statuali unitarie a livello locale.
D'altro canto, tale assunto di base ha trovato, specialmente nell'ultimo quinquennio, più di
una conferma nella legislazione speciale che ha affidato al Prefetto nuove competenze ovvero ha
recuperato allo stesso ambiti di operatività, sviluppando le formulazioni precettive generali di
cui all'art. 19 del t.u.l.com.prov. 1934: è questo il caso dei Comitati Provinciali della Pubblica
Amministrazione e dei comitati metropolitani; delle nuove funzioni in materia di droga, scioperi
nei servizi pubblici essenziali, antimafia, statistica; della ricostruzione del ruolo del Prefetto
rispetto alle autonomie territoriali. Del resto, se è indiscutibile che all'indomani della
regionalizzazione del 1970 il prefetto era entrato in una sorta di "cono d'ombra" istituzionale, si
deve registrare come, a partire dagli anni '80, sia emersa nel contesto sociale una forte domanda
di efficienza dello strumento amministrativo.
Nella ricerca di un punto di coagulo tra Amministrazione, servizi e utenza che fosse più
vicino, anche fisicamente, alle istanze dei cittadini - ad un livello dunque substatale e
subregionale - il carattere fortemente multipolare del sistema amministrativo periferico e locale
ha portato ad una riscoperta significativa della presenza del Prefetto, caricandola di rinnovate
valenze operative.Tale processo non si è, peraltro, accompagnato alla necessaria riflessione su
possibili assetti più avanzati nel rapporto Stato-Regioni-Autonomie locali. In realtà, rimane
ineludibile il problema del rapporto tra l'istituto prefettizio e la più generale questione
istituzionale.
In altri termini, ritorna il tema della qualità della presenza del Prefetto in uno Stato a
forte caratterizzazione decentrata se non, in prospettiva, federale. L'immagine generalista del
Prefetto rimane un dato indiscusso ed anzi, come si è detto, consolidato dal punto di vista
normativo.
Esso conferisce essenzialità ed attualità al ruolo del Prefetto come organo di "chiusura"
dell'ordinamento, come soggetto che assicura comunque una sorta di supplenza istituzionale ed è
chiamato a gestire, ove necessario, momenti di difficoltà o patologici del sistema.In questo
contesto, il destino del Prefetto può quindi scindersi dalla questione istituzionale. A ben vedere,
nulla esclude che, pur in un contesto di marcato decentramento, il Prefetto possa continuare a
rappresentare il nucleo centrale per la riaggregazione delle funzioni statali decentrate, ora
disperse e frantumate e, nel contempo, servire da cerniera tra centro e periferia e, soprattutto,
nel rapporto tra lo Stato e il sistema delle Autonomie Locali.
Si pensi ai tanti piccoli comuni i quali, ove non adeguatamente supportati dal livello
centrale, rischiano una condizione di isolamento istituzionale che ridonderebbe nella sostanziale
negazione del principio costituzionale dell'autonomia. Rispetto all'opzione federalista la presenza
del Prefetto può, perciò, trovare legittimazione proprio in virtù del principio di sussidiarietà,
enunciato dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, che - com'è noto - intende introdurre nel sistema
attuale una sorta di federalismo amministrativo a Costituzione invariata, ove si consideri che il
carattere multipolare dell'Amministrazione Pubblica inevitabilmente richiede un momento di coesione
a livello locale, un punto di riaggregazione delle residue funzioni statali decentrate, assicuri
l'efficienza dell'azione amministrativa.
I problemi che l'Amministrazione oggi è costretta ad affrontare anche a livello locale sono
di portata così vasta, soprattutto in materia economica, che essi non possono essere risolti se non
mediante un collegamento efficace con l'articolazione complessiva degli interventi. Anche nella
prospettiva di uno Stato delle Autonomie bisogna tener conto della sempre crescente necessità di un
intervento statale nelle scelte decisive nell'ambito produttivo, sociale e politico.
Non è possibile ormai condurre a compimento una qualunque iniziativa di rilievo, specie se
rivolta a soddisfare esigenze e spinte locali e settoriali, se non tramite il ricorso sempre più
largo all'azione pubblica complessiva, collegando, cioè, il "particolare" al "generale".Tutto ciò
pone, quindi, l'esigenza di un organismo non di semplice rappresentanza, ma di effettivo
collegamento e mediazione, che sia in grado di fornire in sede centrale un quadro di riferimento
obiettivo e preciso per l'intervento del governo. La nuova dimensione che il prefetto andrà a
configurare si riconduce alla formula di Amministrazione generale che già lo caratterizzò nel
periodo post-unitario e che oggi ritorna, con un'accezione moderna, in consonanza con l'esigenza di
disporre in periferia di un polo unificante di realtà politico-amministrative che, seppure
distinte, convergono verso scopi comuni.
Le profonde trasformazioni che il sistema amministrativo italiano sta subendo in questi anni
coinvolgono la figura del Prefetto, incidendo direttamente o indirettamente, ma comunque sempre in
modo significativo, sulla portata delle sue funzioni e sulla dimensione del suo ruolo. In
un'amministrazione sempre più complessa, caratterizzata dalla settorializzazione e dalla
verticalizzazione degli apparati, l'esigenza primaria per raggiungere livelli adeguati di
efficienza è quella di rendere l'azione degli uffici pubblici sempre più vicina ai cittadini,
favorendone la partecipazione e, comunque, snellendo le procedure.
L'affastellarsi di competenze eterogenee impegna il Prefetto sui più disparati campi
sollecitandolo ad una maggiore attenzione al "sociale", ora riportandolo alla tutela della
sicurezza (anche se in forme aggiornate), ora chiedendogli una complessa opera di ricucitura del
tessuto amministrativo statale periferico e di questo con il sistema dei poteri e delle Autonomie
Locali.